Smart city: la città che produce
Quello che sta a cuore al mio Marco Polo è scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città, ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi. Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi.
(Italo Calvino).
Nel 2008, per la prima volta nella storia dell’uomo, la maggioranza della popolazione mondiale viveva all’interno delle città. Nel 1900 era solo il 13% e si prevede che entro il 2050 questa percentuale salga fino al 70%. Il fenomeno è diffuso su tutto il pianeta. Un centinaio di anni fa, meno di venti città nel mondo avevano una popolazione superiore al milione di persone. Oggi sono 450 e continueranno a crescere nel prossimo futuro. Ad esempio a Mumbai arrivano ogni ora 44 nuovi cittadini, 380 mila persone all’anno.Legato a questo fenomeno è l’emergere dell’Economia dei Servizi. I servizi non si limitano ad assorbire molti occupati, ma sono da diverso tempo la componente più importante del PIL. Non si tratta solo di un dato puramente quantitativo. La crescita di importanza dei servizi sta cambiando qualitativamente il funzionamento del sistema economico, con modalità che sono ancora in parte inesplorate. È in atto da tempo un mutamento strutturale della società, che molti studiosi hanno battezzato postindustriale, per evidenziare le discontinuità rispetto alla precedente era industriale. Vi sono molti aspetti che caratterizzano questa nuova fase della modernità centrata sull’economia dei servizi: i più noti e fondativi sono certamente la pervasività delle tecnologie digitali e la diffusione di nuovi modelli organizzativi. Altre caratteristiche, forse meno conosciute e discusse, influiscono, però, in maniera significativa sulla definizione dei nuovi servizi e sulla loro attrattività economica. Per esempio l’immaterialità e la progressiva terziarizzazione dei prodotti, la nuova centralità del consumatore, la crescente rilevanza dei diritti di accesso rispetto a quelli di proprietà. Oltretutto, come noto, il luogo elettivo per lo sviluppo (e consumo) dei servizi sono proprio le città. La città non è dunque solo luogo dei grandi problemi della contemporaneità (spreco energetico, traffico impazzito, inquinamento diffuso e in aumento, invecchiamento, povertà e “slumizzazione” dei quartieri, criminalità in crescita, …) ma anche e forse soprattutto, il luogo delle grandi opportunità di sviluppo, non solo culturali e sociali ma anche economiche. Già oggi, infatti, nelle città viene prodotto più del 50% del PIL mondiale e questa percentuale è maggiore (e cresce) nei paesi più sviluppati.
Per questi motivi le grandi aree di innovazione, tecnologie digitali, sensoristica, rivoluzione energetica, nuove forme di mobilità, nano–materiali, design dei servizi, biotecnologie … vedono nella città il luogo di applicazione prioritaria. Le Smart Cities, slogan che identifica l’insieme delle applicazioni delle nuove tecnologie al contesto urbano, sono dunque una grande occasione anche per l’Italia. Il tema va però affrontate nel modo giusto e non semplicemente imitando le “buone pratiche” raccontate dai giornali specializzati e dai fornitori di tecnologie. L’approccio corretto per le città italiane, infatti, non deve essere una pallida imitazione dei modelli americani che partono da una visione distopica del vivere urbano (caos diffuso, insicurezza sociale, problemi di energia e inquinamento, …) e danno alle tecnologie digitali un potere quasi magico. Oltretutto il pensiero apocalittico che queste visioni sottendono è poco efficace dal punto di vista comunicativo e di “raccolta del consenso” e introduce anche “interferenze di mercato”, creando la categoria dei “fornitori/salvatori”; non deve neanche essere una semplice risposta ai bandi europei per racimolare le sempre più esigue risorse finanziarie pubbliche a disposizione per l’innovazione. Ma piuttosto l’occasione per riflettere a fondo sul futuro delle nostre città, riunendo attorno a tavoli progettuali i principali attori (non solo decisori e fornitori) per cogliere a pieno le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie ma in piena armonia con la storia, le tradizioni e le vocazioni delle nostre città, diverse, non semplicemente più piccole, rispetto alle megalopoli che stanno spuntando come funghi da oriente a occidente. L’aspetto forse più caratterizzante delle nostre città è infatti il loro cuore antico, il centro storico e il patrimonio culturale diffuso: più che un limite verso la loro modernizzazione, questa dimensione è invece una straordinaria occasione per una forte caratterizzazione identitaria e può (anzi deve) diventare un laboratorio a cielo aperto dove sperimentare le tecnologie e le soluzioni più avanzate. Ma vi sono altri aspetti che caratterizzano le città italiane: essere organizzati attorno alle piazze, una forte dimensione turistica, una diffusione della cultura imprenditoriale artigiana e del commercio al dettaglio, una visione ampia ed inclusiva del welfare, una cultura dell’alimentazione che si declina anche in rapporto con la città. Queste specificità comportano risposte differenziate: non solo efficienza energetica, dunque, né riduzione dell’inquinamento, controllo della sicurezza o mobilità sostenibile, ma anche valorizzazione dei centri storici, creazioni di strade del commercio, introduzione di nuove soluzioni di welfare, realizzazione di filiere corte alimentari. Non sarà l’intelligenza delle macchine o l’automazione dei processi che, da sola, salverà le nostre città ma l’antica sapienza, mista di ingegno e astuzia, che ha consentito a eroi “mediterranei” come Ulisse di risolvere, grazie alla combinazione della techné con idee ingegnose, senza però mai perdere l’umanità e il senso del limite, problemi quasi al di fuori della portata dell’uomo. L’identità di una città va tutelata e rafforzata; è infatti importante per molti motivi; ad esempio le città competono oramai fra di loro per molte cose: per le risorse comunitarie, per i talenti, per i turisti. Le tecnologie applicabili al contesto urbano sono moltissime: rigenerazione architettonica, nuove soluzioni impiantistiche, design dell’esperienza, sensoristica, nuovi materiali, NGN, Cloud e Internet of Things, nuovi sistemi di mobilità di persone e merci, solo per citarne alcune. Ma per cogliere in maniera autentica e duratura le grandi opportunità aperte dalla sempre più esuberante innovazione tecnologica, le tecnologie devono ritornare ad essere strumenti (e non fine) e vanno comprese in profondità, cogliendone con chiarezza anche le ombre o addirittura i lati oscuri – peraltro in aumento. Le cose da fare sono molte e servono priorità, analisi costi/benefici, trasparenza progettuale. Da dove partire dunque? Bisogna considerare della città non solo le esigenze della Pubblica Amministrazione e dei suoi cittadini ma anche delle imprese che vi operano e delle start–up che vi nasceranno. Troppo spesso la città che viene analizzata per costruire il processo di innovazione urbana è solo la “città che consuma” e la “città da amministrare” (per questo motivo spesso è solo il Sindaco che viene visto come l’unico riferimento naturale per le riflessioni sulle Smart Cities, mentre le aziende si limitano a proporsi come fornitori di soluzioni “smart”). Ma esiste una terza dimensione, sempre più importante, ed è la “città che produce”. Con l’emergere della già citata economia dei servizi, che vale quasi il 70% del PIL e una nuova stagione della cultura artigiana che si modernizza senza uscire dal solco della sua tradizione (si pensi per esempio al rapporti artigianato e design, al crescente settore degli “artigiani del digitale”, alle possibilità aperte dai nuovi contratti di rete, …) la città sta diventando il cuore della nuova economia e richiede pertanto nuove infrastrutture e nuove piattaforme di conoscenza (sia di produzione che di condivisione) non solo orientate a fare vivere bene e a intrattenere i cittadini ma a rendere più competitive le aziende che in città operano. In un periodo economico dove la crescita langue, e il tessuto prevalente è di piccole imprese, il supporto alla nascita di imprese tecnologiche è una priorità irrinunciabile; e la città ben si caratterizza come vera e propria “serra creativa” per facilitare la nascita e supportare la crescita di aziende innovative. Ciò che oggi serve – e che le nuove imprese chiedono con forza – sono incubatori e acceleratori di impresa a “forte contenuto digitale” (piattaforme collaborative e centri di calcolo ad alta velocità, sistemi di telepresence, open data, …) che rendano particolarmente competitiva la nascita e crescita di aziende “ICT enabled” e ne riducano l’attuale frammentazione. Si tratta di puntare più alla disponibilità di strumenti informatici “di frontiera” e di infrastrutture di nuova generazione e a supportare processi coesivi e di creazione di “massa critica” (ad esempio resi possibili dal nuovo contratto di Rete) più che alla messa a disposizione di spazi fisici da affittare a prezzi sussidiati. Spesso, infatti, le start-up nascono a casa o nei garage ma hanno bisogno di poter accedere a infrastrutture digitali e a dati/contenuti che siano allo “stato dell’arte”. Si deve dunque poter fornire alle start-up e ai neoprofessionisti e artigiani quello che potremmo chiamare un digital starter kit e un ambiente fortemente connesso ma anche sperimentale: non solo infrastrutture a banda larga e reti diffuse di sensori, ma anche “sezioni” di tali infrastrutture utilizzabili per sperimentazioni in vivo, open source e open data facilmente utilizzabili e modificabili. In parole povere un grande ambiente di test inserito nella città che consenta lo sviluppo e la prova sul campo di servizi realmente utili.
Un altro tema di grande rilevanza è quello della valorizzazione dei “beni comuni” urbani: innanzitutto la creazione di nuovi beni pubblici, in primis le nuove infrastrutture digitali e tutto ciò che ne consegue (open software, open data, …). Come recita la costruenda Agenda digitale: «Al centro della sfida vi è la costruzione di un nuovo genere di bene comune, una grande infrastruttura tecnologica ed immateriale che faccia dialogare persone ed oggetti, integrando informazioni e generando intelligenza, producendo inclusione e migliorando il nostro vivere quotidiano». Ma una sfida ancora più importante è la valorizzazione (economica, culturale e sociale) di quanto già esiste ma è sottoutilizzato: suolo pubblico ed edifici spesso chiusi o utilizzati sporadicamente in luoghi centrali della città (biblioteche, cinema, edifici storici da restaurare, caserme, manifatture tabacchi, …), oppure opere d’arte e materiale archeologico che rimane nei magazzini (si stima che l’80% del patrimonio artistico mobile sia e rimarrà nei magazzini e negli archivi e non sarà mai visibile al grande pubblico). E allora vanno create nuove forme di partnership pubblico–privato per il recupero delle aree ad elevato valore storico artistico (o a grande potenzialità funzionale) che prevedano anche nuove forme di scambio, dove il privato finanzia gli interventi di riqualificazione e riceve in cambio bene pubblico oggi scarsamente valorizzato. In questo campo la città di Roma è in prima linea: i recenti progetti di restauro come quello del Colosseo (molto discusso), dei Palazzi Capitolini, dello Stadio di Domiziano, della Piramide Cestia, del Mausoleo di Augusto sono tutti esempi di approcci al recupero e valorizzazione di edifici storici che si basano su nuovi modelli di partenariato. Il valore di queste iniziative può crescere ulteriormente se all’interno di questi interventi vengono inserite forme esplicite di sperimentazione tecnologica e di innovative public procurement.
La rilevanza storica, culturale ed economica del Patrimonio Culturale italiano, unita alla sua numerosità e diffusione sul territorio e all’onerosità della sua gestione sta dunque aprendo una nuova stagione nei rapporti pubblico–privati. Questi interventi di rigenerazione urbana sono possibili grazie a nuove forme contrattuali dove il privato concorre alle spese per il restauro e la valorizzazione di un luogo importante e conosciuto e riceve in cambio varie forme di beneficio di tipo immateriale, oltre naturalmente alla notorietà e alla riconoscenza di cittadini, turisti e Istituzioni locali per aver reso possibile l’intervento. Spesso questi progetti di restauro e di valorizzazione oltre ad avere un’ampia risonanza mediatica, sono essi stessi particolarmente innovativi non solo nelle attività di martketing e comunicazione utilizzate per raccontare l’iniziativa in tutte le sue fasi -apertura del cantiere, avanzamento dei lavori, consegna dell’opera e suo utilizzo, ma anche nella sperimentazione di nuove tecnologie, strumenti e metodiche. Queste iniziative uniscono un approccio mecenatistico con specifiche dimensioni imprenditoriali: a fronte di un progetto concepito o concordato con l’Amministrazione Locale, il privato interviene coprendo, in tutto o in parte le spese previste e ottiene in cambio varie forme di visibilità e una serie di benefici da concordare di volta in volta con l’Amministrazione coinvolta. Le possibilità sono ampie e ogni progetto apre nuove possibilità. Si possono organizzare iniziative private nel luogo oggetto dell’intervento (sia durante i lavori, sia organizzando l’inaugurazione sia successivamente) oppure visite private, anche notturne. In alcuni casi si può indicare il nome dell’azienda sponsor sui ponteggi dei cantieri. Si possono anche acquisire in comodato d’uso opere archeologiche provenienti dai magazzini della Sovraintendenza e normalmente non esposte al pubblico, per consentire al privato l’organizzazione di eventi specifici, sia in Italia che all’estero. Si possono infine gestire, previamente concordate con l’Amministrazione Comunale, attività economiche (ad esempio la bigliettazione per l’accesso al luogo). Talvolta l’intervento prevede una rifunzionalizzazione con esercizi economici (ad esempio ristorazione o libreria) che possono, in parte o completamente, coprire la somma messa a disposizione per l’iniziativa. Infine viene costruito un pacchetto fiscale che aumenta l’attrattività economica dell’iniziativa. La focalizzazione sulla città che produce chiama in campo un altro importante attore, oggi poco presente sul tema Smart City: il Sistema Camerale. Come noto le Camere di Commercio sono un attore istituzionale fondamentale nel coordinare, armonizzare, completare e rafforzare l’azione del Governo Centrale sui temi dello sviluppo territoriale. La legge di riordino del sistema Camerale approvata a febbraio del 2011 attribuisce infatti un ruolo esplicito e importante in chiave di sussidiarietà “orizzontale” alle Camere nel rafforzamento competitivo del tessuto imprenditoriale del territorio in cui insiste, elemento necessario per un autentico e duraturo sviluppo economico. La sussidiarietà richiede “corpi intermedi” e le Camere di Commercio lo sono naturalmente nel loro ruolo di dialogo e supporto alle imprese, tanto è vero che da molti vengono anche chiamate “Municipio dell’economia”. Le Camera di Commercio possono dunque essere punto di coordinamento e attivazione dei progetti territorializzati dove le esigenze e gli obiettivi nazionali devono declinarsi e armonizzarsi con le istanze locali, dando nel concreto una definizione operativa al concetto di glocal. Un altro importante contributo che questo punto di attivazione sul territorio può dare è l’introduzione e diffusione di approcci partecipativi (legata all’introduzione sia di metodologie progettuali sia di piattaforme tecnologiche che ne facilitano l’implementazione) che consentano di aggregare in maniera facile la domanda delle imprese e degli stakeholder, vista la loro numerosità e frammentazione, e contribuiscano a diffondere una “cultura della crescita”. Questa capacità di aggregazione della domanda e di coprogettazione attivabile dal sistema camerale può diventare, a regime, una dotazione, anzi un vero e proprio “capitale”, del territorio. L’efficacia del contributo che il Sistema Camerale può dare al filone Smart Cities dipende da due ulteriori fattori. Innanzitutto la sua natura “ibrida” , vero e proprio punto di contatto naturale fra il mondo delle imprese e il Governo centrale, in primis il Ministero dello Sviluppo Economico. Il secondo fattore è legato alla presenza, nel sistema, di aziende strumentali specializzate su specifiche aree di competenza, vero e proprio braccio attuativo e che rafforza l’azione delle singole Camere assicurandone, pur nel pieno rispetto delle autonomie locali, l’armonizzazione con l’azione nazionale, le economie di scala e di scopo tipiche di azioni centrali ad elevata replicabilità e in alcun contesti “più fragili”, il rafforzamento dell’intervento tramite il trasferimento di “buone pratiche” e meccanismi perequativi integrati in maniera naturale all’interno del sistema camerale.
Tra i vari contributi che il sistema camerale può dare alla Smart City due sono particolarmente rilevanti:
1. Diventare il presidio e il punto di mediazione fa il tessuto produttivo urbano e i processi di infrastrutturazione e innovazione urbana originati dalla Pubblica Amministrazione. I punti da presidiare sono dunque due: da una parte organizzare e aggregare la domanda di servizi (da cui derivano le infrastrutture – digitali e non necessarie) delle imprese, prevalentemente di commercio al dettaglio, artigiane e del settore dei servizi (alle aziende e alla persona) che operano nel contesto urbano; e ciò grazie anche a nuove metodologie progettuali e piattaforme tecnologiche partecipative.
Dall’altra lanciare alcuni cantieri per potenziare la capacità della città di servire e rafforzare le imprese (ma anche gli artigiani e la nuova classe creativa) che hanno deciso di operare sul suo territorio. Oltretutto il ruolo del Sistema Camerale permetterebbe di costruire un dialogo più naturale e sistematico tra le due componenti del tessuto produttivo oggi coinvolte nei progetti Smart Cites (le aziende lato offerta, espressione prevalente del mondo Confindustriale, e quelle che esprimono la domanda dei servizi urbani – rappresentate di fatto dalla neonata Rete Imprese Italia) che poco si confrontano “faccia a faccia” su questi temi.
2. Dare corpo e dimensione tecnologica e infrastrutturale ad alcuni progetti visionari nati dal mondo delle associazioni di categoria (ad esempio i centri di commercio naturale/strade del commercio, gli orti urbani, la catena corta alimentare, …) creando condizioni per la replicabilità delle buone pratiche. Sul tema della valorizzazione dei centri storici in ottica sia commerciale sia turistica vi sono per esempio molte esperienze interessanti: tra le più recenti il Marketing Lab promosso da INDIS-Unioncamere con il supporto di Iscom Group, che ha sperimentato a Bologna molte soluzioni sofisticate: dal monitoraggio di KPI urbani al city branding, da iniziative che toccano l’arredo urbano fino all’installazione di sofisticate tecnologie digitali o alla realizzazione di un sistema virtuale di wayfinding basato sull’utilizzo di codici QR.
Andrea Granelli
Laureato con lode in informatica e diploma postuniversitario in psichiatria. Già Amministratore Delegato di tin.it e di TLlab, società di Ricerca e Sviluppo del Gruppo Telecom Italia. Attualmente è presidente e fondatore di Kanso, società di consulenza direzionale specializzata nei temi dell’innovazione e della customer experience. Ha diverse pubblicazioni su tecnologie digitali e innovazione.
Tratto da “il percorso verso la città intelligente“ – CITTALIA Fondazione Anci Ricerche