Arezzo: alla ricerca del genius-loci
Dal primo impianto al granducato leopoldino
La storia urbana aretina è fortemente caratterizzata dalla sua ubicazione geografica. Costruita su di una altimetria collinare, alla confluenza di quattro vallate importanti, il Casentino, il Valdarno superiore, la Alta Valtiberina e la Valdichiana, la città si pone al centro di visuali prospettiche ben individuabili dalle direttrici viarie di accesso al centro.
L’impianto arcaico avviene in corrispondenza del poggio di San Donato, dove sono stati ritrovati alcuni tratti di una cerchia civica senz’altro riferibili alla fase iniziale dello suo sviluppo. La successiva caratterizzazione secondo uno schema etrusco-romano definito da un tracciato urbanistico a maglie regolari, è probabilmente una conseguenza dell’influenza esercitata direttamente dalla nascente potenza politica di Roma su Arezzo.
Si può ritenere che il cardo principale fosse corrispondente all’attuale via di Pellicceria-via Fontanella, mentre il decumano fosse costituito dall’asse via Colcitrone-via de’ Pescioni.
Nell’organizzazione della città altomedievale si assite alla perdita di importanza della matrice romana con un modello insediativo basato sul dualismo tra il polo vescovile e la più generale organizzazione della città.
Ma la caratterizzazione più importante del tessuto cittadino viene a definirsi tra la fine del XII secolo e la metà del XIII. Il sistema edilizio a torri, costruite in genere con una pietra bigia, destinata a divenire materiale tipico dell’Arezzo medievale, definisce l’impianto urbano, soprattutto nella zona del Borgo di Santa Maria. Qui l’aspetto doveva essere più severo ed imponente che altrove proprio per il maggior numero di torri, come conseguenza del ripetuto e costante insediamento nobiliare in questa zona. Il sistema viario che ne alimenta i traffici è estremamente ramificato: sia a causa dell’esistenza di tracciati di antica data (per esempio l’attuale via Ricasoli già via del Lastrico) sia per la natura molto acclive del terreno. La direttrice dell’antica via Magio, cioè via Maggiore (oggi corrispondete alla sequenza di via Fontanella, Piaggia di San Lorenzo, via Pellicceria), perde di importanza, mentre si va affermando il nuovo asse preferenziale, che prenderà nome di borgo Maestro, attuale Corso Italia. Si deve notare che proprio in conseguenza della decisa preferenza insediativa lungo il Borgo Maestro, l’asse viario longitudinale primario darà ben presto luogo al formarsi di un secondo tracciato con andamento parallelo al primo, l’attuale via Madonna del Prato. Tale configurazione caratterizza tutt’oggi quella che è stata definita la “forcella di corso Italia”, cuore pulsante della città contemporanea e rende bene l’idea di come l’impianto medievale caratterizzi la matrice urbanistica attuale.
Il punto culminate delle iniziative pubbliche e private, secondo un nuovo modello urbanistico gravitante su spazi e poli a carattere centralizzante, si attua sia con la sistemazione della Platea communis cioè la Piazza Grande, che con la costruzione di due palazzi oggi non più esitenti: quello pubblico, nel 1232, situato in cima alla via Pellicceria e il palazzo del Popolo, situato nella parte alta dell’attuale via dei Pileati, in comunicazione con la piazza principale mediante una scalinata pavimentata in cotto.
Il dinamico sviluppo cittadino che caratterizza questo periodo si realizza anche nella più estesa riorganizzazione fondiaria conosciuta all’interno della città: si creano nuovi comparti urbani secondo il tipico modellato medievale caratterizzato dai serrati lotti gotici, della case a schiera, dalle alte sagome delle torri merlate, che trovano una loro figurazione, se pur con accenti di fantasia, nella visione giottesca della Cacciata dei diavoli da Arezzo. Tale rapporto spaziale e formale va a connotare fortemente l’immagine della città che, anche dopo le pesanti trasformazioni urbanistiche e stilistiche dei secoli successivi, rimane come impronta prevalente della scena urbana attuale.
Con la famiglia dei Tarlati si assiste ad un’importante riorganizzazione del sistema fortificato, si avvia, nel 1319, l’ampliamento della cerchia muraria esistente, soprattutto verso il settore Sud occidentale ma anche verso Est nel settore di Borgo Santa Croce.
É poi Pier Saccone Tarlati a favorire una spregiudicata accettazione della prevalenza economica di Firenze, che condurrà alla definitiva sottomissione di Arezzo al capoluogo fiorentino (1384). Questa data inserisce inesorabilmente Arezzo in un nuovo quadro territoriale che resisterà almeno per cinque secoli: la città graviterà decisamente nel sistema fiorentino sia sotto l’aspetto politico-economico che artistico-culturale.
Una nota a parte merita l’insediamento degli ordini mendicanti che caratterizzano lo sviluppo urbano della città dalla seconda metà del XII secolo fino alla fine del XV.
Anche Arezzo, come molte città italiane del Duecento, diviene meta del flusso migratorio degli ordini mendicanti, soprattutto francescani e domenicani, che si insediarono con dei conventi cittadini ben localizzati all’interno della cerchia muraria duecentesca.
Da notare come le chiese, i monasteri, i chiostri e gli amplissimi orti connessi ai conventi si attestano lungo il perimetro esterno della via che fu realizzata dopo l’abbattimento delle vecchie mura, appellata appunto via Sacra (attuale via Garibaldi) in considerazione dei molti luoghi di culto e di preghiera che congiungeva. La città da allora non mutò le sue caratteristiche principali, né subì trasformazioni significative .
Durante il granducato mediceo, le principali modifiche all’assetto cittadino sono relative alla realizzazione delle mura medicee, meno estese rispetto al tracciato tarlatesco. Si avvia un adeguamento delle fortificazioni alle esigenze delle nuove tecniche belliche. Viene devastata la cittadella turrita, con il Palazzo del Popolo e del Comune, per far posto alla nuova Fortezza ed ai campi militari. Si decide di demolire ogni edificio che si oppone al tiro delle artiglierie, con l’intento di controllare dall’alto l’intera città.
Del programma urbanistico-territoriale avviato dal duca ne fa parte integrante anche l’architettura, in quest’ottica si inserisce il progetto affidato al Vasari per piazza Grande relativo alla costruzione delle Logge (1570 circa). Queste costituirono una sorta di ricucitura dello strappo inferto alla cittadella medievale con il tessuto esistente. Proprio dove più evidenti apparivano le distruzioni Vasari inserisce le logge, come una quinta scenica funzionale alla Piazza di cui ne riduce lo spazio, mutandone funzioni ed immagine.
L’intervento vasariano fornisce l’idea di un linguaggio ufficiale, fissato entro canoni ben precisati, come tramite della cultura di stato voluta da Cosimo I de’ Medici. In questo senso va letto il ridisegno di alcune facciate di palazzi ad esempio degli Azzi, in via Mazziani, dei Barbolani di Montauto in via Cesalpino e via dei Pescioni, per farli aderire al nuovo gusto “alla moderna”. Sono realizzati per accorpamento di precedenti unità immobiliari, mettendo in particolare risalto la struttura architettonica degli spigoli e delle fasce bugnate che delimitano le facciate: ciò perché il tessuto viario aretino che ripete e mantiene, nelle dimensioni e nei tracciati l’organizzazione medievale, consente quasi ovunque vedute molto angolate e tangenziali.
In questo periodo all’interno delle mura sono presenti numerose e vaste aree non edificate destinate a giardini e orti. Tali spazi, in quanto appartenenti agli organismi religiosi, erano sottratti al mercato fondiario.
La successiva soppressione degli ordini religiosi avrà un’eco enorme sull’assetto urbanistico e per quanto già avviata sotto il governo di Pietro Leopoldo, troverà un’attuazione sistematica sotto la dominazione francese prima e con il regno d’Italia più tardi.
Nel periodo leopoldino tra gli episodi urbani di rilievo emerge la costruzione, in un punto dominante della città, di un importante palazzo degli Albergotti, completato alla sommità da una serie di statue (di qui il nome popolare di palazzo delle Statue), che si inserisce nel quadro di un neoclassicismo di matrice neopalladiana. È il più importante esempio aretino della nuova cultura, che si diffonde in Toscana anche per effetto delle scelte della corte lorenese.
Il ritorno di Ferdinando III, a seguito della Restaurazione, segna l’avvio di importanti opere da realizzare sui terreni di proprietà ex-conventuale od utilizzando gli stessi edifici monastici. I cambiamenti introdotti con la modificazione delle originarie destinazioni degli immobili e con le conseguenti, talvolta anche pesanti loro ristrutturazioni, hanno inevitabilmente dei riflessi di carattere urbanistico che gradualmente determinarono diversificazioni nel funzionamento della città. In tal senso uno degli esempi più vistosi è costituito dall’apertura della Piazza del Popolo (1847), utilizzando l’orto del monastero delle Sante Flora e Lucilla. Quest’operazione costituisce un importante segnale di radicali trasformazioni nel tessuto cittadino.
L’Unità d’Italia: punto di partenza per la nascita della città moderna e contemporanea
Il passaggio della regione da stato sovrano a parte di un grande stato nazionale innesca un processo di trasformazione urbana che si svilupperà per molti decenni fino agli anni Trenta del Novecento.
Tra le opere di impronta territoriale, un posto di primo piano è occupato dalle iniziative connesse con la realizzazione del programma ferroviario (la linea Firenze-Roma raggiunge Arezzo nel 1864) che può essere considerato come la nascita della nuova città.
Le caratteristiche orografiche del territorio avevano condizionato il tracciato ferroviario che viene fissato immediatamente all’esterno della cerchia muraria, nella zona pianeggiante tra il prolungamento dell’asse del Corso ed il Poggio del Sole.
Nel 1867 si approva il primo Piano Regolatore della città redatto dall’Ing. Giuseppe Laschi che, per inciso, era appaltatore delle opere ed anche uno dei proprietari fondiari interessato all’intervento urbanistico. Il progetto appare subito un violento inserimento nella tessitura dell’antica città. L’asse principale dell’intervento riguarda l’apertura di una strada (Guido Monaco), che partendo dalla stazione, si prolunga fino ad incontrare la via di Vallelunga (attuale via Cavour), fra la chiesa di San Francesco e il complesso della Badia. Se nel primo tratto, cioè fino al torrente Castro, la nuova strada interessa aree sostanzialmente non edificate, nel secondo tratto, invece, si incontra con aree fittamente costruite, rendendo quindi necessari interventi di sventramento. Un largo segmento di mura sarà infatti abbattuto per essere sostituito da una cancellata che costituirà la nuova cinta daziaria. Del Piano Laschi venne realizzata anche la piazza Guido Monaco, concepita sul modello dell’étoile parigina, cioè una piazza circolare dalla quale si irradiano percorsi in tutte le direzioni. Questo per rispondere all’esigenza di rinnovamento: non più una città chiusa con strade strette e tortuose ma un’idea di città con ampli viali cittadini dritti e adatti alle sfilate delle carrozze.
Osservando una pianta attuale della città è facile rendersi conto che il limite del centro storico non è più costituito a Sud dalle mura, l’apertura della città in questa direzione costituisce un aspetto di forte connotazione anche oggi, tanto da far riflettere sui possibili risvolti progettuali qualificanti il rapporto centro-stazione.
Con il secondo piano regolatore, approvato nel 1893, si vuole risanare il quartiere collegato alla porta di Santo Spirito, per rispondere a concezioni estetiche proprie della borghesia cui si pensavano destinate quelle zone di espansione della città. Si assiste quindi all’abbattimento della porta stessa, all’occupazione progressiva dell’area verde di Poggio del Sole, l’intasamento dei sobborghi di via Madonna del Prato e dell’area dell’anfiteatro romano.
Il cambiamento dell’immagine urbana è dato anche dall’introduzione dell’illuminazione elettrica nel 1895.
Nel Novecento, dopo il primo conflitto mondiale, riprende l’attività edilizia, particolarmente nel settore dell’edilizia sociale: si rende necessario di mettere a punto un programma di case operaie, connesso con l’incremento del numero di operai impiegati nell’industria bellica (Sacfem). Vengono quindi costruiti alloggi di tipo popolare in via Ristoro d’Arezzo, via Cesti, via Trasimeno, sia altri edifici residenziali, destinati ai ceti medi, in via Ghibellina e via Crispi.
Questo fenomeno di modificazione e di espansione della città, se da una parte si attua attraverso una azione di rinnovamento, dall’altra è determinato dalla valorizzazione e restauro di edifici antichi. In tal senso, al di là di certi lavori mirati a far rifiorire i monumenti (come palazzo Pretorio, Casa del Petraca, Anfietatro Romano) sentiti dal regime come emergenze, date le necessità rappresentative di ordine politico,si assiste ad un’operazione di ripristino stilistico che si diffonde capillarmente in più direzioni, investendo gran parte del tessuto edilizio preesistente. Tale operazione conduce ad una colossale reinterpretazione stilistica della città, spesso molto arbitraria, nel quadro del recupero del falso storico, per far emergere il fulgido passato medievale aretino. Si rialzano torri (quella di palazzo Cofani e Lappoli in piazza Grande, quella di Borgunto, della Bigazza, della Casa del Petraca, la torre del palazzo Comunale) si tolgono intonaci o stucchi barocchi, perseguendo il principio della guerra agli intonaci, si assite al rifacimento delle facciate degli edifici civili e delle chiese nell’ottica della riscoperta della aretinità. Questo imponente, come è stato definito “eccesso di cura”, ruota intorno alle personalità dell’architetto Giuseppe Castellucci, definito all’epoca “mago della chirurgia estetica salvatrice”, dell’Ing, Umberto Tavanti (capo dell’Ufficio tecnico, comunale) e del Podestà Pier Ludovico Occhini.
Basta un confronto fra l’immagine dell’attuale panorama aretino con alcune vedute riconducibili alla metà dell’Ottocento per rendersi conto come lo skyline della città si è radicalmente modificato.
Anche il ripristino della giostra del Saracino (1931), dopo secoli di abbandono, appartiene al programma politico di recupero storico voluto dal regime che, per avocare a sè consensi, riscopre le tradizioni e un’immagine della città riconducibile architettonicamente all’epoca più gloriosa.
Tale colossale operazione, pur rispondendo ad un processo di falsificazione storica è comunque ormai mimetizzata e sedimentata nell’immagine della città tanto da costituirne la sua stessa identità.
Sul piano urbanistico viene posta particolare attenzione alla viabilità di accesso, con abbattimenti di alcuni tratti della cinta muraria medicea. In particolare si assiste alla realizzazione del viale del Re, oggi viale Buozzi inaugurato nel 1935, al viale Littorio (fra porta Trento e Trieste e la fonte Veneziana). Di questo quadro fa parte anche l’attraversamento di Colcitrone mediante la nuova via della Minerva che ha inizio da Piazza Sant’Agostino e sbocca in piazza porta Crucifera. Vengono demoliti numerosi corpi di fabbrica in condizioni igieniche al limite del collasso, anche in virtù della forte densità abitativa. Con la strada progettata migliorano le comunicazioni fra la parte più a Sud della città fortificata e le nuove strutture ospedaliere, razionalizzando l’intera viabilità del centro storico. La zona orientale di Colcitrone era andata assumendo un preciso carattere popolare, con una forte densità di abitanti anche se conservava un notevole numero di case a tre o quattro piani fuori terra, molte torri più o meno abbassate o modificate, a testimonianza di una antica presenza di classi sociali degli strati più elevati.
Una certa attenzione venne riservata al problema del verde come elemento di decoro cittadino: in Piazza Umberto I, attuale piazza del Popolo, venne sistemata a giardino l’area destinata al mercato dei cereali., vennero realizzati i giardini, lungo i viali Piero della Francesca e Michelangelo, così da costituire un ingresso decoroso alla città per chi viene dalla ferrovia.
Si andava quindi definendo il quartiere commerciale di via Guido Monaco, via Margaritone, il corso, via Cavour, la ferrovia, dove vi erano alberghi ristoranti, negozi, banche, il centro economico aveva abbandonato la città vecchia.
Tra gli episodi architettonici di rilievo è la costruzione della nuova sede del Palazzo del Governo, nel Poggio del Sole, ad opera dell’architetto Michelucci, principale esponente del gruppo razionalista toscano.
I bombardamenti, in particolare quello del gennaio del 1944, crearono dei danni gravissimi, radendo al suolo la zona intorno alla stazione ferroviaria e distruggendo edifici anche del centro storico. Molti palazzi demoliti dalla bombe durante il seconodo conflitto mondiale e ricostruiti negli anni Cinquanta e Sessanta, spesso si evidenziano nel tessuto cittadino come emergenze dissonanti e poco integrate rispetto al valore architettonico rilevante del patrimonio circostante. Il continuum del costruito è in alcuni casi è disatteso dalla presenza di certi edifici (si pensi per esempio a via Oberdan, o Borgo Santa Croce, via San Niccolò) che per volume, finiture e colore nulla hanno da condividere con le architetture cui spazialmente si legano. In tal senso la rilfessione sui possibili approcci progettuali, forse di mimesi, si rende necessaria, nell’ottica di una visione coordinata e unitaria dell’insieme.
La forte espansione urbanistica voluta dal Piano regolatore degli anni Ottanta ha favorito un decentramento residenziale nelle periferie; l’incremento costante, fino ai giorni nostri dei prezzi e delle ristrutturazioni degli immobili, se pur con una leggera flessione nel 2008, non hanno favorito un aumento della densità di polazione. Inoltre il centro è stato anche destrutturato di quella polarità di funzioni pubbliche e servizi territoriali che da sempre aveva connotato la parte storica di Arezzo. Occorre quindi ripensare al centro urbano nel suo ruolo di polarità d’eccellenza del territorio. in grado di innescare quell’effetto città possibile solo con un progetto unitario.
Il centro storico deve proporsi con un’immagine positiva e rappresentativa della sua matrice storica. per favorire quel processo di riappropriazione dello spazio pubblico da parte del cittadino, anche attraverso un restyling della coerenza dell’insieme, il ritorno al decoro, al “piacere di stare”, aspetti, senza dubbio forieri di processi di sviluppo sociale, culturale ed economico. Il centro di Arezzo è la stratificazione della storia, un centro fisicamente compatto e pieno di valenze simboliche e concettuali aperte non solo ai temi dell’identità, della memoria e della storia, ma anche al dibattito sulla trasformazione e modernizzazione dell’esistente. In particolar modo occorre evitare che il centro storico sia relegato a fondale per una serie di attività economiche che non si relazionano con la vocazione complessiva del sistema città-territorio. Il paesaggio urbano-storico culturale, va senza dubbio conservato e valorizzato ma va soprattutto integrato alla sua realtà contemporanea, deve divenure parte del sistema produttivo del benessere locale, con una rete di progetti che conivolga la città in una manutenzione permanente a manifesto di un sistema sano, dove investire, intraprendere, vivere.